La responsabilità del datore di lavoro per i danni subiti dai lavoratori è un tema sempre all’ordine del giorno.
Dopo la stagione del diritto del lavoro “economico” che ha implementato le regole sinallagmatiche dei rapporti, da alcuni lustri viviamo la stagione del diritto del lavoro “risarcitorio”.
Molte energie sono state profuse per individuare l’ampia sfera di responsabilità del datore di lavoro e la conseguente area di risarcibilità dei danni patiti dai lavoratori a causa o in occasione dello svolgimento del rapporto di lavoro.
Con una recente (file:cass.265122020.pdf text:sentenza) (Cass. 20.11.2020 n. 26512) la S.C. considera nuovamente la normativa in questione. Si tratta del caso di un medico specialista in ginecologia che ha contratto un’epatopatia cronica attiva HCV contratta durante il rapporto di lavoro.
La Cassazione ribadisce l’obbligo del datore di lavoro non solo a porre in essere le misure di sicurezza – ritenute necessarie dall’esperienza e dalle regole tecniche preesistenti e collaudate – e a informare i lavoratori ma anche a presidiare la fase dinamica dell’espletamento del lavoro in ambiente lavorativo in modo che vengano prevenuti sia i rischi insiti nell’ambiente di lavoro sia i rischi derivanti dall’azione di fattori ad esso esterni.
La Corte riconosce che l’iniziativa imprenditoriale è espressamente subordinata all’utilità sociale come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, libertà e dignità.
Questi ultimi valori costituiscono il centro d’interesse del diritto volto alla loro salvaguardia.
L’obbligazione di sicurezza, prevista dall’art. 2087 c.c., impone, dunque, una interpretazione estensiva, atta a preservare l’integrità della salute del lavoratore a fronte di eventi pur non collegati direttamente all’ambiente di lavoro tenuto conto della probabilità di concretizzazione del conseguente rischio.
In questo contesto la Cassazione ricorda – ed il monito è quanto mai attuale in tempo di COVID-19 – che “…in conseguenza del fatto che la violazione del dovere del neminem laedere può consistere anche in un comportamento omissivo e che l’obbligo giuridico di impedire l’evento può discendere, oltre che da una norma di legge o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività, a tutela di un diritto altrui, è da considerare responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui è esposto l’altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento dannoso”.
In altri termini, coniugando al presente l’insegnamento astratto della Corte, il datore di lavoro è obbligato a garantire il bene salute del lavoratore anche se il rischio non è strettamente inerente alla prestazione lavorativa resa, e deve porre in essere ogni azione per impedire l’evento dannoso (che può essere letto come obbligo di impedire l’infezione da COVID-19).
Il datore quindi è tenuto a dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.
Di qui potrebbe costruirsi giuridicamente l’obbligo di vaccinazione, per i lavoratori che possono contrarre il COVID-19, sul luogo di lavoro, ben sapendo che solo in Veneto vengono denunciati 3.000 casi di infezione al mese.
Altra cosa, invece, sono le conseguenze in caso di violazione di un obbligo imposto dal datore. Se gravi e reiterate possono integrare quel notevole inadempimento degli obblighi contrattuali che fonda il licenziamento per giustificato motivo soggettivo di cui all’art. 3 L. 604/66.
Sulla base di tali principi la Cassazione – nel caso in esame – conferma la sentenza della Corte di Appello che aveva riconosciuto la responsabilità datoriale per l’infortunio da contagio per la mancata prova da parte del datore di lavoro della totale sterilizzazione degli ambienti di lavoro.
La responsabilità del datore di lavoro per i danni subiti dai lavoratori