Pillola di Lavoro n. 26
News
20 Settembre 2021

Pillola di Lavoro n. 26

di MDA
su MDA Pills
share
Legittimo il licenziamento per consistente uso privato del pc aziendale (ma a patto che i fatti siano provati in giudizio)

Con la (file:sentenza-6-agosto-21.pdf text:sentenza) n. 494 pubblicata il 6.8.2021 la sezione Lavoro del Tribunale di Venezia ha affermato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che, tra l’altro, in orario di lavoro aveva ripetutamente utilizzato per finalità private il pc aziendale in contrasto con la policy aziendale vigente, la quale vietava l’uso degli strumenti informatici aziendali per esigenze extra lavorative.

Se la massima risulta chiara e lineare, tuttavia, come spesso accade, la sua estrema sintesi (caratteristica tipica e pregevole delle massime ma che, giocoforza, non riesce a dar conto della complessità delle fattispecie reali e delle vicende processuali) potrebbe trarre pericolosamente in inganno.
Il caso considerato non fa eccezione: almeno due sono gli aspetti in relazione ai quali merita spendere qualche parola in più per poter cogliere il corretto significato della decisione in commento.

Primo: il Tribunale di Venezia non ha qui affatto affermato la sussistenza della giusta causa di licenziamento per un “qualsiasi” utilizzo privato dello strumento informatico aziendale in violazione delle disposizioni del datore di lavoro.
Nel caso di specie, infatti, l’utilizzo per finalità private del pc aziendale in contrasto con la policy aziendale era stato “massiccio” ed aveva, quindi, comportato la sottrazione di una considerevole quantità di tempo all’attività lavorativa, peraltro anche in relazione a giornate nelle quali il lavoratore stesso aveva – falsamente – dichiarato al datore di lavoro di aver svolto lavoro straordinario.
Inoltre, l’utilizzo privato del pc aziendale da parte del lavoratore comprendeva anche una serie di specifiche azioni (navigazione su siti non sicuri, utilizzo di chiavette USB, etc.) tali da mettere in grave pericolo la sicurezza del sistema informatico aziendale: e, infatti, gli specifici addebiti contestati al lavoratore e posti alla base del licenziamento erano emersi proprio nel corso delle verifiche tecniche effettuate a seguito di un attacco hacker al sistema informatico aziendale, che aveva comportato il blocco totale dell’attività per vari giorni e costretto la datrice di lavoro al pagamento di un “riscatto” per recuperare i dati presenti nel sistema.
Infine, nel caso considerato, il licenziamento poi ritenuto legittimo era stato intimato non solo in ragione dell’utilizzo privato del pc aziendale ma anche in ragione di ulteriori e diversi fatti di indubbia gravità (solo per dare un’idea, stiamo parlando della falsificazione in due occasioni della firma del datore di lavoro in calce ad una dichiarazione rivolta ed inviata a terzi).
In conclusione, la sentenza in esame, ad avviso di chi scrive, conferma una volta di più che l’intimazione di un licenziamento richiede sempre una attenta valutazione preventiva da effettuarsi caso per caso, ed un tanto vale anche per le ipotesi di uso privato degli strumenti informatici aziendali in violazione delle disposizioni datoriali: nel caso considerato, il lavoratore ne aveva combinate tante e tali che l’accertamento della legittimità del licenziamento non dovrebbe stupire più che tanto.

In effetti, e questo è il secondo aspetto che si ritiene di evidenziare in relazione alla sentenza in esame, la questione fondamentale che sta “dietro le quinte” della sentenza esaminata è a ben vedere non tanto la sussistenza o meno della giusta causa in relazione a determinati fatti tra cui l’utilizzo privato del pc aziendale, quanto, piuttosto, il tema della prova di questi fatti e dei controlli datoriali sugli strumenti informatici.
E qui è necessario precisare che, nel caso considerato, la prova degli specifici addebiti mossi al lavoratore era stata acquisita proprio attraverso un controllo sul pc aziendale assegnato al lavoratore, il quale, dal canto suo, in giudizio aveva eccepito, tra le altre cose, l’illegittimità dei controlli effettuati in mancanza di una policy aziendale che li prevedesse e, conseguentemente, l’inutilizzabilità delle informazioni acquisite ex art. 4 L. 300/1970.
Inutile dirlo, il giudizio è stato terreno di scontro tra le opposte tesi, sostenute rispettivamente da ciascuna delle parti in causa per sostenere le proprie ragioni: da un lato, la tesi dell’assoluta illegittimità senza eccezioni dei controlli datoriali sugli strumenti di lavoro ove posti in essere senza le condizioni di cui all’art. 4, comma 3, St. Lav. nella sua più recente versione (ossia che sia stata data ai lavoratori adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli) e, d’altra parte, la tesi della legittimità di tali controlli, anche in assenza di una policy perfettamente in linea con la norma citata, in alcune particolari situazioni caratterizzate, come nel caso che occupa, dall’effettuazione del controllo datoriale in ragione di una specifica esigenza “difensiva” rispetto a comportamenti gravemente illeciti del dipendente.
Ciò che è interessante rilevare, è che nel caso di specie non si è di fatto giunti a proclamare un chiaro vincitore tra le due tesi contrastanti. Sicchè, il dubbio permane, ma nonostante ciò, il Tribunale ha percorso una terza via, anch’essa suggerita dall’azienda, comunque utile per arrivare a ritenere utilizzabili e dimostrati i fatti alla base del licenziamento e affermarne poi la legittimità: si tratta del caro, vecchio, principio processuale della ammissione e/o “non contestazione” in ragione del quale, ove determinati fatti tempestivamente allegati da una parte processuale vengano ammessi o non vengano tempestivamente e specificamente contestati dall’altra parte, gli stessi debbono ritenersi provati in giudizio.

gli autori