Sono stati pubblicati di recente i risultati del progetto “Osservatorio 231” dell’Università di Padova, riguardanti l’applicazione nelle sedi giudiziarie del Triveneto del Decreto Legislativo n. 231/2001, che regola la responsabilità amministrativa e penale delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti apicali o dai diretti sottoposti.
L’indagine ha confermato gli andamenti altalenanti degli anni precedenti, caratterizzati da un numero limitato di procedimenti. Nel decennio 2012-2021 (escludendo il 2020, perché troppo condizionato dagli effetti della pandemia), il Veneto ha raggiunto il numero massimo di procedimenti, 58, nel 2012 il Trentino Alto-Adige nel 2014 con 31 e il Friuli Venezia Giulia nel 2017 con 64 Sono le stesse regioni che nel 2021, 2016 e 2013 hanno registrato rispettivamente un minimo di 23, 13 e 10 procedimenti.
Costanti invece le tipologie dei “reati presupposto” ovvero gli illeciti commessi dagli apicali o dai loro dipendenti, per la gran parte da ascrivere all’omicidio o alle lesioni personali colpose per violazione della normativa di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (nel settore delle costruzioni, ma non solo), ai reati ambientali (in particolare tra le imprese del settore), ai reati contro la Pubblica Amministrazione (è da ritenere in relazione al contesto degli appalti pubblici) e, in minor misura, ai reati tributari, introdotti nel sistema 231 nel 2019 e che adesso potrebbero destare l’attenzione per taluni reati societari collegabili alle tematiche tributarie.
Vari i fattori da considerare: dalla diversa sensibilità verso la responsabilità 231 delle singole Procure della Repubblica (a una crescita della cultura della legalità e dell’organizzazione all’interno delle imprese che, ha permesso alle imprese di articolare soluzioni procedurali ed assetti interni finalizzati a garantire la maggiore conformità a legge dell’attività aziendale, così da poterla separare dai comportamenti illeciti commessi da apicali o dipendenti, fino alla prudenza dell’Autorità Giudiziaria preoccupata forse delle conseguenze che un’applicazione generalizzata del Decreto 231 avrebbe avuto sul tessuto economico ed occupazionale.
E’ bene ricordare che l’attuazione del Decreto 231 non costituisce un obbligo, bensì una facoltà e ciò spiega in parte la sua estesa diffusione presso le grandi imprese ed una parte delle medie imprese – ed una sua minore capacità attrattiva nei confronti delle piccole imprese, che diventa minima tra le microimprese (meno di 10 dipendenti e fatturato annuo non superiore a € 2 milioni).
In realtà è lo stesso legislatore a contraddirsi ripetutamente, prima di tutto attraverso una progressiva ipertrofia del catalogo dei reati presupposto, e in una sostanziale incapacità di discernere le diverse capacità di risposta, ideando una responsabilità da reato estesa a tutte le attività d’impresa, a prescindere dalle loro caratteristiche quantitative e qualitative, dimenticando che nelle microimprese (ed in una parte delle piccole imprese) l’ente e l’interesse che ne ispira l’azione finiscono per identificarsi con la persona fisica che governa l’impresa.
Non si trascuri infine la genericità di alcune disposizioni del Decreto 231, che spinge verso una supplenza da parte della giurisprudenza, la cui discrezionalità e mutabilità dovrebbero stimolare il legislatore ad adottare i necessari correttivi, per evitare che con questi livelli d’incertezza una parte delle imprese preferisca affrontare il rischio di non dotarsi di un Modello Organizzativo e di non avvalersi della preziosa opera di controllo – e, ancor prima, di confronto – svolta dall’Organismo di Vigilanza.
Nonostante ciò, l’esperienza conforta nel dire che le imprese che hanno attuato il Decreto 231, poiché almeno minimamente organizzate, ne hanno tratto importanti utilità, non ultima l’abitudine ad una costante circolazione delle informazioni ed alla proceduralizzazione delle soluzioni operative e di controllo interno, che le ha preparate – e, a maggior ragione, le preparerà – pure alla sfida parallela lanciata dal nuovo art. 2086 C.C. introdotto nel 2019 dal “Codice della crisi d’impresa”, che ha imposto ad ogni imprenditore operante in forma societaria o collettiva di dotarsi di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alle dimensioni ed alla natura dell’impresa, al fine di rilevare tempestivamente l’eventuale crisi d’impresa e la perdita della continuità aziendale.
Domenico Giuri
Socio MDA Studio Legale e Tributario
(Venezia – Padova – Treviso)