Nel panorama dell’alluvionale legislazione promulgata durante l’emergenza sanitaria merita di essere segnalato l’art. 29-bis approvato dal Parlamento in sede di conversione del Decreto Legge 8 aprile 2020, n. 23 (il così detto “Decreto Liquidità”, convertito nella Legge 5 giugno 2020, n. 40).
Secondo questa disposizione:
“Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste”.
Nell’ambito della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro è assai raro imbattersi in una disposizione interpretativa come questa, che mira a mettere al riparo da responsabilità penali il Datore di Lavoro che abbia adempiuto ad uno o più specifici obblighi di fare o di non fare, ma è pur vero che nel caso in esame si tratta di obblighi stabiliti dall’Autorità di governo (nazionale e regionale) a tutela dell’intera collettività, sebbene specificandoli nel contesto organizzato ed organizzabile dell’attività d’impresa.
Si è in presenza infatti di un rischio generale (piuttosto che generico) per la salute pubblica, che non rientra normalmente tra i rischi specifici connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa ed ai suoi assetti tecnici, organizzativi e procedurali, per ciò stesso rimessi alla valutazione, alla prevenzione ed al controllo del Datore di Lavoro ed ascrivibili a sua responsabilità sotto forma di colpa specifica.
Non si trascuri però che, laddove non sia ravvisabile la violazione di uno specifico precetto antinfortunistico, la giurisprudenza è solita ancorare la responsabilità penale del Datore di Lavoro per l’infortunio occorso ad un dipendente all’art. 2087 del Codice Civile (secondo il quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), spesso affidandosi nelle sue valutazioni a parametri oggettivi d’imputazione della colpa.
Invero, secondo la Corte di Cassazione, si è al cospetto di “… una norma di chiusura che pone in capo al datore di lavoro un obbligo generico di disposizione di tutte le misure necessarie per prevenire eventuali rischi, anche se non esplicitamente richiamate da norme particolari che prevedano reati autonomi (ex plurimis: Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015; Sez. 3, n. 6360 del 26/01/2005)” (Cass. Sez. III, sentenza 25 maggio 2018, n. 50000). La stessa Corte precisa tuttavia che il Datore di Lavoro non deve creare un ambiente lavorativo a “rischio zero”, disponendo misure atte a prevenire anche gli eventi rischiosi ragionevolmente imprevedibili ed inevitabili, dal momento che tale pretesa “… implicherebbe, incostituzionalmente, la condanna a titolo di responsabilità oggettiva”.
Nonostante ciò nella prassi giudiziaria spesso l’art. 2087 C.C. è stato (ed è tuttora) brandito – specie dalla Magistratura inquirente – per imputare al Datore di Lavoro la commissione dei reati di omicidio colposo o di lesioni personali colpose gravi o gravissime, soprattutto allorquando non risulti violato alcuno dei numerosi precetti antinfortunistici specifici.
Questa tendenza (rectius, deriva) giurisprudenziale induce a concludere che, in caso di infortunio/malattia del lavoratore, il datore di lavoro rischia di rispondere comunque in sede penale, con buona pace degli artt. 27 della Costituzione e 40 del Codice Penale, che viceversa escluderebbero qualsiasi forma di responsabilità oggettiva.
In tempi di emergenza sanitaria alcuni giuristi hanno richiamato questo orientamento giurisprudenziale favorevole all’applicazione estensiva – per non dire automatica – dell’art. 2087 C.C. in ambito penale, sostenendo che in caso di malattia da coronavirus formalmente accertata sul luogo di lavoro, non si può escludere la responsabilità penale del Datore di Lavoro solo perché ha adottato scrupolosamente in azienda e fatto rispettare ai dipendenti tutte le misure di prevenzione enunciate nel Protocollo Nazionale sottoscritto dal Governo e dalle Parti Sociali (il 14 marzo 2020 e, più recentemente, il 24 aprile).
È possibile che anche la disposizione ambigua dell’art. 42, comma 2, del D.L. n. 18/2020 (noto come “Decreto Cura Italia” e convertito nella L. n. 27/2020) abbia indotto a riflessioni simili, secondo la quale: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.
In realtà, una lettura attenta di questa norma avrebbe subito chiarito che è l’occasione di lavoro a legarsi all’accertamento dell’infezione, facendone presumere semplicemente la causa o, meglio, l’origine nel contesto lavorativo e determinandone la formale qualificazione come infortunio sul lavoro, al fine di permettere una sorta di socializzazione del relativo costo a carico dell’assicurazione obbligatoria. Solo così si spiega la circostanza che lo stesso evento infortunistico non rientri di per sé nel computo del tasso medio legato all’andamento infortunistico per il calcolo del premio assicurativo, come altrimenti dovrebbe accadere per gli infortuni effettivamente avvenuti in occasione di lavoro, anche se per caso fortuito o per colpa esclusiva del lavoratore.
Sin dalla Circolare n. 13 del 3 aprile 2020, l’INAIL aveva chiarito il significato e i limiti della formale equiparazione del contagio da Covid-19 all’infortunio sul lavoro, sottolineando che la responsabilità del Datore di Lavoro non si determinava sul mero presupposto che l’infortunio fosse in qualche modo riconducibile all’attività lavorativa.
Con la successiva Circolare n. 22 del 20 maggio 2020, l’Istituto ha precisato ancora che l’esclusione dell’incidenza degli infortuni da Covid-19 in occasione di lavoro sulla misura del premio assicurativo è dovuta al fatto che “…tali eventi sono stati a priori ritenuti frutto di fattori di rischio non direttamente e pienamente controllabili dal datore di lavoro al pari degli infortuni in itinere”. Oltre alla “… rigorosa prova del nesso di causalità, occorre anche quella dell’imputabilità quantomeno a titolo di colpa della condotta tenuta dal datore di lavoro. Il riconoscimento cioè del diritto alle prestazioni da parte dell’Istituto non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del Pubblico Ministero. (…) Pertanto la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’art. 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n. 33”.
Nessun automatismo in termini di responsabilità datoriale dovrebbe discendere dunque né dall’art. 2087 C.C., né dalla formale qualificazione dell’infezione Covid-19 come infortunio sul lavoro, atteso che “il riconoscimento della malattia professionale non comporta automaticamente il riconoscimento di responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. (cfr., tra le molte, Cass. nn. 3366/2017; 21203/10), poiché incombe sul lavoratore che lamenti di avere contratto quella malattia, l’onere di provare il fatto che costituisce l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno” (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, Ordinanza n. 10404 del 1° giugno 2020; vd. pure Corte di Cassazione, Sentenza n. 3282/2020).
In questo contesto, esposto al rischio di interpretazioni mutevoli e già di per sé carico di preoccupazioni per la salute pubblica e per la tenuta del sistema produttivo, si inserisce l’intervento del Legislatore con il citato art. 29-bis, al fine di proteggere il datore di lavoro da responsabilità penali nel caso in cui adempia puntualmente agli obblighi dettati dalle disposizioni e dai protocolli di sicurezza predefiniti dall’Autorità di governo, normativamente qualificati come la soglia delle conoscenze sperimentali e tecniche esigibili dal Datore di Lavoro anche in funzione della responsabilità per colpa generica delineata dall’art. 2087 C.C. –
Molti commentatori hanno definito questa disposizione come un vero e proprio “scudo penale” per i Datori di Lavoro.
Ma davvero, in assenza dell’art. 29-bis, il Datore di Lavoro avrebbe comunque rischiato la condanna penale per non aver tutelato la salute del proprio dipendente minata dal coronavirus?
La risposta è tendenzialmente negativa.
Innanzitutto, occorre considerare che la gestione dell’emergenza sanitaria è stata orientata principalmente alla tutela della salute pubblica, quindi sia i rischi che le misure di prevenzione sono stati valutati, decisi e imposti dalle Autorità pubbliche, senza lasciare alcun margine di discrezionalità ai cittadini e, tra questi, ai Datori di Lavoro, se non per l’individuazione delle modalità di attuazione, considerando gli assetti tecnici, operativi e logistici delle loro imprese.
I Datori di Lavoro che hanno attuato puntualmente le misure contenute nei vari D.P.C.M. e nei Protocolli condivisi hanno fatto tutto ciò che era in loro potere – anzi dovere – di fare, non essendo loro consentito valutare misure diverse di prevenzione e protezione dei lavoratori.
Ma anche ammettendo che la responsabilità penale per la presunta violazione dell’art. 2087 C.C. e la malattia del dipendente contagiato dal virus possa essere ascrivibile allo zelante Datore di Lavoro, puntuale esecutore degli ordini impartiti dalle Autorità, non si può ignorare l’obbligo di dimostrare il nesso di causa tra la condotta eventualmente imputabile al Datore di Lavoro e l’evento lesivo (malattia o morte del lavoratore).
In effetti, l’onere di provare questo nesso incombe sul Pubblico Ministero e, in caso di azione civile, sul dipendente o sui suoi eredi. Si tratta di una prova molto difficile da conseguire (al di là di ogni ragionevole dubbio o secondo il criterio civilistico “del più certo che no”), considerando la diffusione ampia del virus, i tempi variabili dell’incubazione della malattia e la massa di soggetti positivi asintomatici potenzialmente contagiosi.
L’onere probatorio risulta attenuato solo per i lavoratori del settore sanitario-assistenziale e per quelli a contatto continuativo con il pubblico (ad esempio, lavoratori in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi). Per tali operatori, in virtù della Circolare INAIL n. 13/2020, vigerebbe la presunzione semplice di origine professionale della malattia, considerata l’elevatissima probabilità di contatto con il coronavirus. Tuttavia, questa presunzione da sola non sarebbe sufficiente a fondare un giudizio di responsabilità penale, in assenza dell’accertamento in concreto di una colpa a carico del Datore di Lavoro, come ribadito dallo stesso Istituto nella sopracitata Circolare n. 22/2020.
Effettivamente, in questi casi particolari (forse da estendere cautelativamente ad altri settori lavorativi normalmente esposti a rischio biologico – artt. 266 e ss. D.Lgs. n. 81/2008?), la disposizione dell’art. 29-bis soccorre il Datore di Lavoro pubblico o privato, dimostrando di aver puntualmente adempiuto alle prescrizioni dei vari DPCM e dei Protocolli condivisi, riconoscendogli ex lege di aver adempiuto agli obblighi imposti dall’art. 2087 C.C. –
Un ultimo aspetto problematico va esaminato in relazione alla responsabilità amministrativa degli Enti disciplinata dal D.Lgs. n. 231/2001. È necessario chiedersi se, in caso di malattie da coronavirus accertate in occasione di lavoro, sia possibile condannare la Società per la violazione dell’art. 25 septies dello stesso Decreto in ragione del reato presupposto di omicidio colposo o di lesioni personali colpose (artt. 589 e 590 C.P.) attribuito alla responsabilità di un soggetto apicale o di un dipendente di costui.
La risposta è negativa nel caso in cui la Società (già dotata di un adeguato Modello Organizzativo e Gestionale) abbia attuato e fatto rispettare i precetti del D.Lgs. n. 81/2008 e dei Protocolli specifici per il contenimento del contagio.
Negli altri casi, potrebbe scattare la responsabilità amministrativa dell’Ente solo se in sede dibattimentale sarà raggiunta – oltre ogni ragionevole dubbio – la prova: 1) della condotta colposa di un soggetto qualificato (apicale o subordinato, che non abbia osservato neppure quanto previsto dal ricordato art. 29-bis); 2) del nesso di causa tra la condotta contestata e l’evento lesivo o mortale occorso al dipendente; 3) dell’assenza od inadeguatezza del Modello Organizzativo e Gestionale o dell’attività di controllo svolta dall’Organismo di Vigilanza; 4) del conseguente interesse o vantaggio concretamente perseguito o conseguito dall’Ente.