Secondo la recente Cass. pen. n. 23808/2019, la produzione in un giudizio civile di dati personali (anche sensibili) – anche se effettuata al di fuori dei limiti previsti per il corretto esercizio del diritto di difesa – non configura di per sé il reato di trattamento illecito di dati di cui all’art. 167, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003, essendo necessaria la prova di una effettiva lesione dell’interesse protetto.
La Suprema Corte ha precisato che il testo riformato dell’art. 167, comma 2, del D.Lgs. n. 196/2003 (modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, che ha adeguato la normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali) tuttora richiede, ai fini dell’integrazione della fattispecie di reato, il requisito del documento (inteso come un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale o non patrimoniale, subito dalla persona alla quale si riferiscono i dati o le informazioni protetti), con l’ulteriore specificazione, rispetto al passato, che lo stesso deve essere arrecato all’interessato.
La Cassazione ha dunque precisato che il necessario requisito del nocumento, richiesto per la configurazione del reato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, non può ritenersi sussistente in caso di produzione in un giudizio civile di documenti contenenti dati personali – ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa** – in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una effettiva lesione dell’interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscritta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale (giudice, cancellieri, avvocati e praticanti avvocati) sui quali incombe un obbligo di riservatezza (**Cass. pen., sez. III, 29 maggio 2019, n. 23808).