Con sentenza n. 3 del 26 gennaio 2021, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha statuito che ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti previsto dall’art. 192 D.Lgs. n. 152 del 2006 e che i relativi costi gravano sulla massa fallimentare.
Il massimo consesso della Giustizia amministrativa si è misurato con la fattispecie in cui responsabile dell’abbandono o del deposito incontrollato di rifiuti era una società poi dichiarata fallita.
L’Adunanza Plenaria è stata quindi chiamata a valutare se il curatore fallimentare subentri nei cennati obblighi di rimozione e ripristino dei luoghi, potendo esso essere destinatario di un’ordinanza comunale, che ingiunge di adottare tutte le misure idonee allo scopo.
Palazzo Spada ha risposto affermativamente all’esposto quesito, sulla base delle considerazioni che seguono.
A seguito dell’inventario dei beni dell’impresa fallita, ai sensi dell’art. 87 l.fall., il curatore diviene il “detentore” anche dei rifiuti presenti in un immobile che appartenga alla società fallita; secondo il diritto europeo, i rifiuti devono comunque essere rimossi, anche quando cessa l’attività d’impresa, dallo stesso imprenditore, che non sia stato dichiarato fallito, oppure in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento.
Nel diritto comunitario non assume rilevanza la distinzione, propria invece del diritto nazionale, tra il possesso della cosa (art. 1140 c.c.) e la sua mera detenzione (art. 1141 c.c.); ciò che rileva, infatti, è la “disponibilità materiale dei beni”, situazione che viene appunto a crearsi con l’amministrazione di un patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati.
Sempre la disciplina comunitaria (art. 14, par. 1, Dir. 2008/98/CE), impone che i costi della gestione dei rifiuti siano sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori dei rifiuti, in applicazione del principio “chi inquina paga”, in forza del quale solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno, su cui gli stessi siano stati collocati, può invocare l’esimente da responsabilità prevista dall’art. 192, comma 3, del Codice dell’ambiente.
La curatela fallimentare, essendo – per legge – custode dei beni del fallito, anche quando non abbia proseguito la sua attività imprenditoriale, non può invocare la citata esimente, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall’attività svolta dal detto fallito. L’Adunanza Plenaria ha anche precisato che, seguendo la tesi contraria, i costi della bonifica dei siti inquinati finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in contrasto non solo con il ricordato principio comunitario, ma anche con la regola per cui i costi dell’attività d’impresa devono ricadere sulla massa dei creditori dell’imprenditore, i quali sono gli unici beneficiari degli eventuali utili del fallimento (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 26.01.2021, n. 3).