Lunedì 11 luglio 2022, a trenta anni dalla promulgazione della Legge n.104 del 1992, il Presidente dell’INPS Pasquale Tridico ha tenuto la propria relazione a Montecitorio in occasione della presentazione del XXI Rapporto annuale dell’Istituto. Il dossier prende in esame la situazione del Paese nel 2021, con particolare attenzione alle più rilevanti prestazioni erogate dall’Istituto e alla dinamica dei contribuenti.
Tra le misure troviamo il sostegno offerto ai caregiver, ovvero i lavoratori che prestano assistenza a familiari con disabilità grave, grazie alle misure previste da trenta anni esatti dalla Legge n.104 del 1992.
Dalla relazione emerge, tra le altre cose, che negli ultimi dieci anni si è registrato un importante aumento delle domande di permessi ex art. 33 co. 3, passate dai 264.152 del 2012 ai 429.241 del 2021. Tra i richiedenti il 47,38% sono impiegati, il 45,94% operai, il 5,78% quadri o dirigenti, mentre lo 0,9% appartiene ad altre categorie professionali. I dati sono importanti, come è importante la crescente incidenza economica del fenomeno. Un altro buon motivo per occuparsene.
È norma di civiltà, non solo di diritto, consentire ai caregiver di godere di permessi per assistere i familiari. È poi espressione di una evoluta sensibilità sociale il fatto che il costo di tali permessi gravi sull’INPS e, quindi, sulla “comunità produttiva” piuttosto che, indistintamente, sull’intera “comunità nazionale”. Una tale scelta è indubbiamente densa di significato.
Non può non colpire quindi che, mentre l’INPS annuncia un aumento nelle richieste di intervento assistenziale, con ordinanza 25 maggio 2022 n. 16973 la Suprema Corte di Cassazione ritenga eccessivo sanzionare col licenziamento il lavoratore che decida di approfittare, per fini personali, di parte delle ore di permesso concessegli per assistere un familiare infermo.
Il problema che qui ci si pone non è, però, se sia corretto che la Cassazione abbia ritenuto “non così grave” il comportamento nei confronti del datore di lavoro. Il vero problema è piuttosto se sia tollerabile il tradimento da parte sia del più solenne dovere di lealtà che indissolubilmente lega tutti i lavoratori al complesso sistema sociale a cui ciascuno è automaticamente ammesso a partecipare dal momento della propria prima assunzione.
La Cassazione continua ancor oggi a vedere nel rapporto di lavoro solo la relazione tra lavoratore e datore di lavoro, astenendosi dal giudicare il ben più grave inadempimento del lavoratore nei confronti della “comunità” a cui appartiene: eppure il sacrificio organizzativo imposto dalla legge 104 al datore di lavoro quello assistenziale sostenuto dall’Inps si giustificano solo tanto in quanto il fruitore di permessi, nelle ore di permesso, presti effettivamente assistenza al familiare.
Insomma, a chi scrive sembra che qualcosa di grave nell’utilizzo anomalo dei permessi retribuiti ci sia e consista in una certa resistenza culturale, anche nella giurisprudenza, nel riconoscere uno specifico valore a quel delicato ed intricato intreccio di rapporti che è il “mondo del lavoro”, fatto sì di “produzione contro remunerazione”, ma anche di relazioni umane e sociali, mutuo sostegno e protezione.
Forse ciò che ancora manca, anche presso la Suprema Corte, è riconoscere in modo pieno che il “mondo del lavoro” è un ecosistema estremamente delicato che, soprattutto oggi, può esistere solo se accompagnato da una etica sociale del lavoro che anche noi, giuristi impegnati nella tutela delle ragioni private, siamo chiamati a difendere.