La Cassazione ha confermato il licenziamento disciplinare di una lavoratrice che in 18 mesi accedeva circa 6.000 volte a siti internet estranei alle finalità lavorative (circa 4.500 accessi erano a Facebook). Tribunale e Corte d’Appello avevano ritenuto una simile condotta idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra datore e dipendente. Nel confermare il licenziamento, la Suprema Corte non entra, però, nel merito della vicenda, ma si limita a rigettare in rito i motivi di impugnazione svolti dalla lavoratrice.
In particolare, viene rigettata perché ritenuta “nuova” (sollevata cioè solo con ricorso per cassazione) anche l’eccezione più efficace che in questi casi il lavoratore può opporre all’utilizzo dei dati, vale a dire la violazione della normativa privacy.
Il rigetto in rito dell’eccezione, non deve indurre a sottovalutare che però, nel nuovo quadro normativo (art. 4 L. 300/1970, Reg. EU 679/2016 e D.Lgs. 196/2003), come interpretato da parte della più recente giurisprudenza (Trib. Roma, Sez. Lav., 13/6/2018), i dati raccolti in violazione della normativa privacy sono inutilizzabili in giudizio.
Occorre pertanto che il datore di lavoro nel trattare (ed utilizzare in giudizio) i dati raccolti (tra i quali rientra anche la cronologia degli accessi ad internet) non solo fornisca l’apposita informativa al dipendente, ma rispetti anche i principi consacrati dal GDPR in tema di trasparenza e graduazione dei controlli (Cass., Sez. Lavoro, 1.02.2019, n. 3133).