Diffamazione Sindacalista: Critica Legittima o Eccesso?
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01 Febbraio 2019

Diffamazione Sindacalista: Critica Legittima o Eccesso?

di MDA
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Deve essere giudicato per diffamazione il sindacalista che usa espressioni offensive, esorbitanti rispetto al legittimo diritto di critica

Con ordinanza del 5 novembre 2019, il GIP di Venezia ha ordinato al P.M. l’imputazione coatta nei confronti di un sindacalista per il reato di diffamazione (art. 595 C.P.), avendo ritenuto che la sua condotta non possa essere discriminata dall’esercizio del diritto di critica – anche aspra – altrimenti riconosciuto ad un soggetto deputato alla tutela dei diritti dei lavoratori.

Il caso deciso dal Giudice veneziano aveva ad oggetto un esposto a firma di un sindacalista indirizzato a molte Autorità Pubbliche, il cui testo conteneva sia espressioni critiche (anche connotate da vis polemica, ma certamente legittime, in quanto correlate a rivendicazioni sindacali), sia affermazioni gravemente offensive nei confronti di un imprenditore (ad es.: “abusi di potere”, “sistema di mazzette”, controlli compiacenti” e “intrecci finanche malavitosi”), additato in buona sostanza quale beneficiario di un vero e proprio sistema corruttivo. Questi passaggi dell’esposto, ad avviso del GIP, esorbitano dal diritto di critica ed eccedono i limiti della continenza, sì da meritare di essere valutati in dibattimento come diffamazione da parte del sindacalista.

Per un fatto analogo (un esposto dello stesso tenore presentato da rappresentanti locali del medesimo sindacato) il Tribunale di Venezia, Sezione Lavoro, con ordinanza del 6 febbraio 2018, ha sì ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare disposto nei confronti dei sindacalisti firmatari, in quanto sproporzionato rispetto agli illeciti loro addebitati, ma ha sancito la natura oggettivamente diffamatoria di taluni passaggi del loro esposto.

Sui limiti del diritto di critica del lavoratore che rivesta pure il ruolo di sindacalista, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si è pronunciata diverse volte nel corso degli ultimi anni. Pur nella estrema varietà dei casi affrontati, il principio ormai consolidato è che può essere considerato comportamento idoneo a minare la fiducia alla base del rapporto di lavoro (e, quindi, costituire giusta causa di licenziamento) l’esercizio del diritto di critica che, superando i limiti della continenza formale, si traduca in una condotta gravemente lesiva della reputazione del datore di lavoro (vd., da ultimo, Cass., Sez. Lav., 2 dicembre 2019, n. 31395).

Sostanzialmente allineata sul punto sembra essere anche la giurisprudenza penale, secondo la quale il requisito della continenza delle espressioni attraverso le quali si estrinseca il diritto di rilievo costituzionale (art. 21 Cost.) alla libera manifestazione del pensiero (con la parola o con qualunque altro mezzo di diffusione) richiede “… una forma espositiva corretta della critica – e cioè astrattamente funzionale alla finalità di disapprovazione – e che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione. D’altro canto, esso non è incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti” (Cass. Pen., Sez. V, 23 maggio 2019, n. 37864).

Il limite della continenza si ritiene oltrepassato (derivandone la possibile rilevanza penale di quanto affermato sotto il profilo della diffamazione) “… quando le espressioni adottate risultano pretestuosamente denigratorie ed inutilmente sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca e della critica; pertanto la verifica circa l’adeguatezza del linguaggio alle esigenze del diritto di critica impone innanzitutto l’accertamento della proporzionalità dei termini adoperati in rapporto all’esigenza di evidenziare la gravità dell’accaduto, quando questo presenti oggettivi profili di interesse pubblico” (Cass. Pen., Sez. V, 20 maggio 2005, n. 19381), sempre che – ovviamente – il contenuto delle affermazioni corrisponda al vero.

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