Oltre alla grammatica ed alla retorica, l’arte del saper ricordare. A distanza di molti secoli, in un’era in cui basta digitare una parola o un nome per trovare nella smisurata memoria del web moltissime informazioni spesso riferite ad eventi perduti nel tempo, anche la dimenticanza ha assunto un valore consistente al punto che -prima nell’elaborazione giurisprudenziale e poi a livello normativo con l’introduzione del Regolamento UE 2016/679 sulla protezione dei dati (GDPR)- si è avuto il riconoscimento del diritto all’oblio, inteso come il diritto dell’individuo ad essere dimenticato o meglio a non essere ricordato per fatti del suo passato suscettibili di dare un’immagine distorta o non più attuale di sè. Non si tratta di una tutela fine a sé stessa bensì strumentale rispetto ad altri diritti: la riservatezza; l’immagine; l’identità personale; la privacy. L’attualità di questa tutela nell’odierna società dell’informazione emerge anche dai dati del più recente Digital Report secondo cui il consumo medio giornaliero di internet da parte degli italiani è stimato di 6 ore e 9 minuti e nella maggioranza dei casi è volto proprio alla ricerca di informazioni e notizie, tant’è che i domini più visitati sono Google, Facebook, YouTube e Wikipedia. I passi per ottenere il riconoscimento del diritto all’oblio, peraltro, sono spesso più semplici e rapidi di quanto si possa pensare, a partire dalla richiesta scritta ai motori di ricerca, ai social network o al proprietario del sito (Google mette addirittura a disposizione degli interessati un modulo online) e le chance di successo sono tutt’altro che remote. Google, ad esempio, dopo l’iniziale rigetto della maggior parte delle domande ha cambiato atteggiamento, complice l’ampio contenzioso promosso dagli interessati a fronte di una risposta negativa. Il diritto all’oblio però non è un diritto assoluto. L’art. 17 GDPR, infatti, consente all’interessato di ottenere la cancellazione dei dati personali che lo riguardano solo quando non sono più necessari alle finalità per cui sono stati raccolti; quando vi è stata la revoca del consenso al loro trattamento; quando sono trattati illecitamente; quando si tratti di minori. Ma non solo. Il riconoscimento del diritto all’oblio, sia nella declinazione propria del GDPR sia nei precedenti giurisprudenziali in cui esso affonda le proprie radici, impone sempre un delicato giudizio di bilanciamento tra diritti opposti quali il diritto alla libertà di espressione e di informazione; l’adempimento di obblighi giuridici o di servizi di pubblico interesse; motivi di sanità pubblica; finalità di archiviazione, di ricerca scientifica o storica o di statistica; la difesa giudiziaria. Ecco dunque che, per richiamare solo alcuni dei più recenti casi decisi dai giudici italiani ed europei, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (dec. 09.03.2017- C 398/15) ha negato l’oblio relativamente ai dati personali degli amministratori di società fallite rinvenibili nel Registro Imprese ritenendo prevalente la funzione di rendere pubbliche informazioni che garantiscono la certezza del diritto nelle relazioni tra società e terzi. A sua vota, la Corte di Cassazione (sent. n. 1354/2021) ha negato l’oblio rispetto ai dati relativi all’iscrizione ipotecaria che restano visibili anche successivamente alla cancellazione dell’ipoteca tramite annotazione, in ragione del prevalente diritto alla sicurezza dei traffici giuridici e della pubblicità immobiliare. Il panorama è assai variegato e allo stato permangono ancora delle criticità all’attuazione completa e, soprattutto, world wide del diritto all’oblio, le quali non sono sanate né dal GDPR né dall’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (sent. 19681/2019) col quale s’è chiarito, in generale, che il diritto dei titolari del trattamento a mantenere senza limiti di tempo dati personali e informazioni sussiste solo se l’interessato, per ragioni di notorietà o di ruolo pubblico rivestito, desta ancora l’interesse della collettività. Resta infatti un limite territoriale, poiché in assenza di una normativa internazionale il diritto alla cancellazione e alla deindicizzazione è limitato alle sole estensioni europee dei motori di ricerca. Resta inoltre un limite di ordine temporale giacché a tutt’oggi non esiste un’univoca indicazione su quale sia il periodo di tempo necessario al sorgere del diritto ad essere dimenticati. V’è infine il limite dell’applicabilità del GDPR alle sole persone fisiche, superabile solo attraverso l’applicazione in via analogica dei diritti della personalità umana quali la reputazione commerciale e l’immagine. È vero che l’attenzione del legislatore nazionale per questo tema di grandissima attualità ed interesse comincia a vedersi tant’è che la L. 134/2021 (cd. Riforma Cartabia) prevede espressamente il diritto alla deindicizzazione a favore degli indagati o imputati che non siano stati condannati; tuttavia, in mancanza di un intervento normativo di ampio respiro, continuerà ancora per molto tempo ad essere rimesso agli operatori del diritto il compito di dare un contenuto sempre più preciso e concreta attuazione a questa forma di tutela.
Nei tempi antichi la memoria era una delle massime virtù tanto che nelle scuole si insegnava