È da poco scaduto il termine entro cui le aziende con più di 50 dipendenti erano tenute a presentare il rapporto riferito al biennio 2020-2021 sulla situazione del personale, utile al fine di misurare i progressi verso una più completa parità tra lavoratrici e lavoratori. Chissà se si riuscirà a registrare un passo avanti rispetto a quanto è emerso dal Word Economic Forum che pone l’Italia al 63° posto sui 146 Stati presi in considerazione. Questo nonostante siano ormai trascorsi trent’anni dall’introduzione della Legge n. 125 del 1991 e 15 anni dal Codice delle Pari Opportunità.
Il terreno su cui la partita si gioca non è solo quello del lavoro, ma è al lavoro che oggi occorre guardare con maggior interesse anche per le opportunità che il PNRR sta offrendo. Leggendo l’ultimo “Report on Gender Equality in the EU – 2022” e, soprattutto, guardando agli obbiettivi del Pnrr, Italia ed Europa stanno investendo non poche risorse per convincere quante più aziende possibile, anche le PMI, ad adottare il sistema di certificazione.
I criteri fissati per l’ottenimento della certificazione sono la presenza di opportunità di crescita per le donne all’interno dell’impresa, l’uguaglianza delle remunerazioni, la presenza di politiche per la diversità di genere, la protezione della maternità. Il rilascio della certificazione avviene attraverso organismi di valutazione della conformità accreditati.
Lo sprone pensato dal legislatore consiste in uno sgravio contributivo annuale entro il limite massimo di 50mila euro e una posizione di privilegio nelle gare d’appalto.
Sarà curioso vedere se, dopo ben più di un secolo di lotte scioperi e cortei, a fare la differenza sarà un sistema incentivante dal sapore utilitaristico: vantaggi materiali contingenti in cambio di parità. Il tema è delicato e certamente non si può risolvere solo con una certificazione; tuttavia, il meccanismo proposto certamente può produrre alcuni effetti positivi come evitare all’Italia di perdere posizioni nella classifica mondiale e rendere più attraente il mercato italiano, sensibilizzando le imprese, soprattutto le Pmi che, grazie agli incentivi, possono certificarsi potenzialmente “a costo zero”.
Forse sotto il profilo sociale e culturale cambierà poco, soprattutto perché nel ‘nuovo mondo arcobaleno’ il dibattito sulla parità tra i due generi è già vecchio in favore del più sottile problema dell’‘identità’ e delle molteplici possibili sue declinazioni.
Ciò che è certo, dentro e fuori dal posto di lavoro, è che nulla di autenticamente nuovo ci si potrà attendere fino a quando non saremo in grado di rispondere in modo fermo e sicuro ad una domanda tanto semplice quanto disarmante: quanti sono i generi sul posto di lavoro? Per chi scrive, l’unica risposta rivoluzionaria sarebbe poter dire che di genere ce n’è uno solo: quello umano. Una risposta di questo tipo può avere carattere definitivo solo dopo che, come società civile, avremo compiuto per intero il viaggio attraverso i mille volti della diversità. D’altro canto, una delle maggiori conquiste della nostra cultura classica è stata la scoperta della necessità di cercare il diverso e il comune in ogni cosa. E lungo tale percorso un bonus contributivo può essere uno strumento più che adeguato.
Per concludere: ci sono cinquantamila ‘buone’ motivazioni per certificarsi, spetta ora alle imprese capire che si tratta di una opportunità da cogliere.