Pillola di Lavoro n. 21
News
14 Maggio 2021

Pillola di Lavoro n. 21

di MDA
su MDA Pills
share
Insulti alla collega che rientra dalla maternità: risponde anche il datore?

Con (file:cass-11113-2021.pdf text:ordinanza n. 11113 del 2021) la Sezione Lavoro della Cassazione si pronuncia su un caso particolarmente delicato e di grande attualità, vista la gravissima ricaduta che la crisi da Covid-19 ha avuto sul tasso di occupazione femminile.

Questi i fatti: la dipendente di un’azienda, in posizione gerarchicamente superiore, si rivolge ad una collega appena rientrata dalla maternità con espressioni che la Corte definisce “dal tenore pesantemente discriminatorio, al di là del disprezzo personale e del linguaggio da trivio”. L’obiettivo – secondo i giudici di merito e di legittimità – era quella di indurre la subordinata alle dimissioni.

I profili di interesse della pronuncia – che conferma la condanna in solido della lavoratrice che ha proferito gli insulti e del datore di lavoro al risarcimento del danno quantificato in 10.000 euro – sono almeno due.

*1) La lavoratrice insultata ha scelto di agire in giudizio facendo valere le tutele ed i particolari strumenti messi a disposizione dal D.lgs. n. 198 del 2006 (il “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”).
L’art. 25 del Codice delle pari opportunità definisce la discriminazione diretta qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso”; mentre la discriminazione indiretta è costituita da “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività”. Il co. 2 bis dell’art. 25 precisa poi che costituisce “discriminazione” (sia diretta che indiretta) anche ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive.
Il successivo articolo 27 – che introduce dei divieti di discriminazione nell’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e nelle condizioni di lavoro (nel cui ambito rientra certamente anche il mantenimento dell’occupazione) – stabilisce al co. 1 che: “è vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro (…) compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, nonché la promozione, indipendentemente dalle modalità di assunzione”. Il successivo co. 2 dell’art. 27 stabilisce “La discriminazione di cui al comma 1 è vietata anche se
attuata: a) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive”.
Sulla base di queste disposizioni la Cassazione conferma l’iter argomentativo dei giudici di merito che avevano ricompreso gli insulti della lavoratrice alla collega tra gli atti discriminatori vietati dal Testo Unico.

2) La Corte ritiene sussistere la responsabilità solidale del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. ed ex art. 2049 cod. civ. (quest’ultimo sulla responsabilità dei datori rispetto all’operato dei subordinati). Questo perché ritiene – seppur con un passaggio argomentato in modo alquanto succinto – che risulti provato dalla sola posizione gerarchicamente occupata dalla lavoratrice che ha proferito gli insulti il fatto che tali frasi siano espressione di una volontà condivisa anche dall’azienda datrice.
Se così fosse, di certo si tratterebbe di una condotta contraria prima di tutto all’art. 2087 cod. civ., con evidente violazione diretta da parte del datore di lavoro (che si rinverrebbe anche in caso di omessa vigilanza sulla condotta scorretta dei dipendenti nei confronti dei colleghi).
Quanto alla responsabilità ex art. 2049 cod. civ., occorre ricordare che la giurisprudenza è particolarmente propensa ad estenderne l’ambito di applicazione, escludendo la responsabilità datoriale in quei soli e rari casi in cui non sia possibile individuare il c.d. nesso di occasionalità necessaria, ossia in quei casi in cui il dipendente non abbia perseguito finalità coerenti con le mansioni che gli furono affidate, ma finalità proprie, alle quali il committente non sia neppure mediatamente interessato o compartecipe (Cass, 17 maggio 1990 n. 2226; Cass. 13 novembre 2001, n. 14096).

Si tratta di una pronuncia che evidenzia ancor di più la necessità per le aziende di dotarsi di codici comportamentali e meccanismi di controllo e segnalazione interni che consentano di limitare quanto più possibile la responsabilità per episodi come quello deciso dalla Cassazione.

gli autori