Pillola di Lavoro n. 6
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22 Giugno 2020

Pillola di Lavoro n. 6

di MDA
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Le attività preliminari alla prestazione lavorativa (“tempo tuta”): quando va pagato e quando no

L’occasione di tornare sui principi della materia, ce la offre la pubblicazione della recente sentenza (file:sentenza.pdf text:Cass. 7.5.2020 n. 8623), con la quale è stato riconosciuto al personale infermieristico dell’ASL 2 di Lanciano Vasto Chieti (già protagonista del precedente specifico deciso da Cass. 1.7.2019 n. 17635) il diritto alla retribuzione per il tempo necessario ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro, in base alla funzione assegnata all’abbigliamento obbligatorio, per ragioni di sicurezza ed igiene attinenti alla gestione del servizio pubblico e alla incolumità del personale addetto.
Si tratta della conferma di un indirizzo consolidatosi nel tempo.
Per comprendere se il tempo necessario alla vestizione/svestizione degli abiti da lavoro va remunerato oppure no, occorre fare riferimento: al i) CCNL; ovvero ii) alla funzione del vestiario e alle modalità di conservazione dello stesso.
i) È certamente necessario remunerare il tempo di vestizione/svestizione se il CCNL lo prevede.
ii) Il più delle volte però il CCNL non dice nulla: che fare ?
nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio (cosiddetto “tempo-tuta”) «costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo» (Cass. n. 9215/2012; Sez. Unite, n. 11828/2013).
Nel più recente orientamento giurisprudenziale si pone l’accento sulla funzione assegnata all’abbigliamento, nel senso che «l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati, o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento – o dalla specifica funzione che devono assolvere e così dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto» (Cass. n. 7738/2018; n. 1352/2016).
Di conseguenza, non fa parte del normale orario di lavoro e quindi non è passibile di retribuzione quando sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli indumenti (anche eventualmente presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro). In tale ultimo caso, infatti, la relativa operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e, come tale, il tempo necessario per il suo compimento non deve essere retribuito.

Di recente anche il Ministero del Lavoro se ne è occupato con la risposta all’(file:interpello.pdf text:interpello n. 1 del 23 marzo 2020).
Anche per il Ministero, l’attività di vestizione e di svestizione deve essere inclusa nell’orario di lavoro solo in presenza dei requisiti elaborati dalla giurisprudenza prima evidenziati.
Pertanto il cd. tempo tuta deve essere considerato incluso nel normale orario (e pertanto retribuito) nel caso in cui il datore di lavoro abbia imposto al lavoratore di indossare determinati indumenti dallo stesso forniti, con il vincolo di tenerli sul posto di lavoro. Al contrario non si ritiene incluso nell’orario di lavoro, e pertanto non retribuito, il tempo di vestizione dei lavoratori non obbligati ad indossare la divisa in azienda e non obbligati a dismetterla alla fine dell’orario, lasciandola in sede. Secondo il Ministero, infatti, tale ipotesi rientrerebbe nella facoltà del lavoratore di scegliere il tempo e il luogo dove indossare la divisa, eventualmente anche nella propria abitazione prima di recarsi al lavoro.

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