La condizione di continuità aziendale dell’impresa, ossia la sua attitudine a proseguire l’attività economica che la caratterizza per un periodo di tempo superiore ad almeno un bilancio d’esercizio, rappresenta uno dei principi cardine in tema di redazione del bilancio aziendale. Il primo comma dell’art. 2434 bis C.C., stabilisce infatti che nel redigere il bilancio “la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività, nonché tenendo conto della funzione economica dell’elemento dell’attivo o del passivo considerato”.
La rilevanza di detta condizione non si limita però solamente alla redazione del bilancio, ma – specie dopo l’approvazione del nuovo Codice della Crisi dell’impresa – costituisce sempre più un concreto indice di valutazione a lungo spettro dello “stato di salute” della società e un valido campanello d’allarme per gli organi sociali, nella prospettiva di attivare per tempo quelle che il nuovo Codice definisce procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza. Nel caso venga rilevato il venir meno di tale condizione, infatti, i principi di redazione del bilancio non saranno più quelli dettati dall’art. 2426 c.c., bensì quelli imposti dalla prospettiva liquidatoria in cui la società deve necessariamente porsi.
Due recenti pronunce sono intervenute sul punto, illustrando in termini chiari a quali condizioni lo stato di continuità aziendale possa dirsi sussistente.
La prima, emessa dal **Tribunale di Venezia** con sentenza del 15 novembre 2018, ha il pregio di fornire una definizione chiara della nozione di “continuità aziendale”, dando conto di alcuni elementi idonei a dimostrarne la ricorrenza: il giudice veneziano ha infatti precisato che il requisito della continuità aziendale viene meno “ove una società non sia più in grado, mediante lo svolgimento della propria attività caratteristica, di generare un flusso di entrate ed uscite tale da rendere prevedibile, in un arco di (almeno) 12 mesi, il prosieguo dell’attività aziendale”.
Alla luce di tale definizione, nel caso sottoposto al suo giudizio, il Tribunale ha accertato la permanenza della continuità, dando conto – in sentenza – di come l’azienda pagasse regolarmente e con mezzi ordinari i propri debiti alle scadenze, godendo per questo di costante fiducia da parte del ceto bancario. Ulteriori indici positivi, ha annotato il giudice veneziano, sono dati dal positivo risultato d’esercizio dell’ultimo bilancio depositato – ancorché in assenza di utili – e dall’effettiva realizzazione di utili con incremento del patrimonio netto nel primo semestre dell’anno successivo.
(Tribunale di Venezia, sez. imp., 15.11.2018).
Un caso di accertata insussistenza della continuità aziendale è invece rinvenibile in quello deciso dal Tribunale di Milano, con sentenza del 22 febbraio 2019.
Il giudice meneghino, nell’affermare il venir meno di tale requisito, ha dato peso alle valutazioni del collegio sindacale e, in particolare, alla circostanza che fossero stati trascritti sul libro delle adunanze dell’organo di controllo previsioni di grave perdita contabile relative all’anno precedente, tali da comportare – una volta utilizzati i corretti criteri di appostazione in bilancio degli attivi – la riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale (2447 c.c.).
Chiarisce il giudice che, al verificarsi di dette condizioni, gli amministratori avrebbero dovuto, in prospettiva liquidatoria, procedere nella valutazione dei cespiti dell’attivo patrimoniale a valori di presumibile realizzo, espungendo dal bilancio ogni posta incompatibile con l’imminente liquidazione, quali i costi di impianto avviamento e sviluppo capitalizzati come immobilizzazioni finanziarie, ovvero di converso gli ammortamenti periodici iscritti fra i costi del conto economico. (Tribunale di Milano, sez. imp., 22.02.2019, n. 1784).