Secondo l’art. 2473 c.c., quando – per statuto – la durata della società sia stata fissata per un tempo indeterminato, il socio ha diritto di recedere in ogni tempo, con preavviso (art. 2473, secondo comma, c.c.).
Nel 2013, la Cassazione aveva ammesso l’applicabilità di tale previsione nell’ipotesi in cui la società fosse stata costituita per un periodo talmente esteso da far perdere qualsiasi possibilità di ricostruire l’effettiva volontà delle parti circa l’opzione fra una durata a tempo determinato o indeterminato della società n. (Cass. civ., sez. I, 22.04.2013, n. 9662).
In tale occasione, i giudici avevano infatti ritenuto l’originaria durata statutaria della ricorrente – il cui termine era stato previsto per il 2100 – assimilabile ad una durata a tempo indeterminato, trattandosi di un’epoca così lontana “da oltrepassare qualsiasi orizzonte previsionale, non solo della persona fisica ma anche di un soggetto collettivo” e superando così “la ragionevole data di compimento del progetto imprenditoriale“.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha invece ritenuto che tale ragionamento non possa essere esteso a tutti i casi in cui, semplicemente, la durata statutaria della società sia superiore alla presumibile aspettativa di vita dei soci.
Il parziale dietrofront dalla Cassazione si fonda su due ordini di argomenti: un primo, di carattere testuale, secondo il quale l’art. 2473 c.c. circoscrive tassativamente la possibilità di recesso ad nutum alle sole ipotesi in cui la società sia stata contratta a tempo indeterminato; un secondo, di carattere sistematico: il prevalente interesse dei creditori sociali al mantenimento dell’integrità del patrimonio sociale, impedisce di applicare – per estensione – alle s.r.l. la disciplina prevista per le società di persone (art. 2285 c.c.), per le quali è consentito il recesso ad nutum in caso di società costituita per un tempo pari o, come ammesso dalla giurisprudenza, superiore alla presumibile aspettativa di vita dei soci (Cass. civ., sez. I, 29.03.2019, n. 8962).