A partire dal momento in cui sono stati resi disponibili i primi vaccini contro il Covid-19, sono sorte tra gli operatori alcune questioni di non facile soluzione: il datore di lavoro può chiedere ai propri dipendenti di vaccinarsi? E, soprattutto, è possibile che dal rifiuto eventualmente opposto derivino conseguenze nell’ambito del rapporto di lavoro, tra cui il licenziamento?
Stante l’attuale assenza di una norma che renda obbligatoria tale vaccinazione, il datore di lavoro non può imporre ai propri dipendenti di sottoporsi al vaccino anche in considerazione di quanto disposto dalla Costituzione, per la quale nessun trattamento sanitario può essere imposto salvo vi sia un’espressa previsione di legge in tal senso (art. 32 Cost.); ciò non significa però affatto che il rifiuto eventualmente opposto sia privo di conseguenze nell’ambito del rapporto di lavoro.
È necessario, infatti, muovere dall’esame degli obblighi che gravano sul datore di lavoro e, segnatamente, dell’obbligo di sicurezza. Il datore di lavoro, in base alla previsione codicistica di cui all’art. 2087 c.c., “è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”; si tratta di una norma dal contenuto aperto, che dev’essere applicata considerando le misure di tutela dai rischi alla salute disponibili nei differenti momenti storici, finalizzata comunque ad assicurare il massimo livello possibile di protezione dei lavoratori.
Così, considerando il rischio che i lavoratori possano contrarre il Covid-19 nei luoghi di lavoro, il datore di lavoro è stato sin da subito onerato di predisporre e vigilare sull’osservanza di tutte le misure volte a prevenire il contagio: distanziamento, utilizzo delle mascherine di protezione, plexiglas, ricorso al lavoro agile ove possibile, etc. Il vaccino si inserisce ora tra le misure disponibili di tutela della salute dei lavoratori e risulta avere un grado di efficacia elevato, per quanto non assoluto, contro il virus; ricorrendo ad esso, pertanto, il datore di lavoro porrà le basi per prevenire l’eventuale contagio sul luogo di lavoro, del quale altrimenti potrebbe essere chiamato a rispondere.
Per questo motivo si può prevedere che sarà interesse dei datori di lavoro promuovere la diffusione del vaccino all’interno del luogo di lavoro, eventualmente inserendo nel DVR, precedentemente aggiornato o integrato con l’inclusione del rischio biologico Sars-CoV-2, la vaccinazione tra le misure adottate per prevenire e contenere la diffusione di tale rischio.
La previsione della vaccinazione tra le misure per la sicurezza sul luogo di lavoro, del resto, appare in linea con il ruolo attivo, di co-protagonista, che la normativa sulla sicurezza assegna ai lavoratori: non è solo il datore di lavoro a dover proteggere la salute dei suoi dipendenti, ma sono anche questi che devono prendersi cura della salute e sicurezza propria e degli altri soggetti che rischierebbero altrimenti di subire le conseguenze pregiudizievoli delle loro azioni o omissioni (art. 20 d.lgs. n. 81/2008).
Alla luce di quanto premesso, occorre ora interrogarsi su quali possono essere le ricadute concrete sul rapporto di lavoro (e sulla sua prosecuzione) laddove il dipendente si rifiuti di sottoporsi al vaccino, premettendo sin d’ora che la complessità della questione esige necessariamente un’analisi caso per caso della fattispecie.
Preliminarmente vi è un problema di “conoscibilità” di questa informazione, ovvero, fatta eccezione per il caso in cui sia lo stesso dipendente a comunicarlo sua sponte all’impresa, può il datore di lavoro imporre al dipendente di comunicargli se si è sottoposto o meno al vaccino?
Oltre all’art. 9 del GDPR (Reg. EU 679/2016), che introduce un divieto generale di trattamento di “particolari categorie di dati” (come quelli c.d. “sanitari”), vi è da considerare anche che il datore di lavoro potrebbe vedersi opposto dal lavoratore che ad esempio sostiene ideologie “no vax” il divieto di svolgere indagini sulle convinzioni del lavoratore di cui all’art. 8 dello Statuto dei lavoratori (L. 300 del 1970). Secondo questa norma, infatti, “è fatto divieto al datore di lavoro (…) nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore”, e l’adesione all’ideologia “no-vax” potrebbe essere ricondotta alla categoria delle opinioni “politiche” latamente intese.
È in questo contesto che diviene cruciale il ruolo del medico competente, nella sua qualità di collaboratore del datore di lavoro nel sistema della sicurezza. All’attività del medico competente, infatti, si applica un’ipotesi derogatoria al generale divieto di trattamento di dati sanitari: l’art. 9, par. 2, lett. h) GDPR prevede che tale divieto non si applica se “il trattamento è necessario per finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro”. Inoltre, il suo ruolo terzo rispetto al datore, corredato dal dovere di riservatezza previsto tanto dalla deontologia medica, quanto dalla stessa disciplina del T.U., consente di superare anche lo scoglio rappresentato dall’art. 8 St. lav.
Una volta, dunque, che il medico competente viene a conoscenza del fatto che il lavoratore non è vaccinato, questo sarà chiamato ad esprimere un giudizio di idoneità alla mansione. È ragionevole escludere che da questo giudizio possa derivare il licenziamento del lavoratore, anche quando per la sua particolare mansione egli si trovi particolarmente esposto al rischio di contrarre/trasmettere il virus. Questo perché attualmente è ragionevole affermare (e sperare) che la pandemia abbia un orizzonte di durata ormai limitato, specie a seguito dell’avvio della campagna vaccinale, e, pertanto, l’eventuale inidoneità alla mansione non potrebbe che essere di natura temporanea”, ossia fino al termine della pandemia, ad esempio attraverso il raggiungimento della c.d. “immunità di gregge”. Per procedere al licenziamento in questo caso il datore dovrebbe provare che è venuto meno l’apprezzabile interesse a ricevere la prestazione dal prestatore, circostanza che – alla luce dei principali orientamenti giurisprudenziali – non è scontata da provare.
Come si diceva, quindi, si verserebbe in un caso di inidoneità temporanea, rispetto alla quale pare ragionevole dover svolgere un discrimine tra a) impossibilità oggettiva di sottoporsi al vaccino per cause indipendenti dalla volontà del prestatore (es. immunodeficienza, altra condizione fisica patologica che impedisce la somministrazione), e b) rifiuto del prestatore per ragioni altre rispetto a quelle sub a)
Quali conseguenze? In questo caso, se la particolare natura della prestazione che il lavoratore è chiamato a svolgere non consente il suo svolgimento in modalità tali da garantirne l’isolamento rispetto a colleghi, terzi ed allo stesso datore (ad esempio potendo lavorare in modalità “agile”), o non vi sono altri ragionevoli misure che il datore, unitamente ai suoi collaboratori (RSPP e Medico competente) può adottare, ivi compreso il ricollocamento ad altra mansione, nel primo caso sub a) appare ragionevole – e per certi versi doveroso – sospendere il lavoratore con mantenimento della retribuzione; nel secondo caso sub b), invece, la soluzione più ragionevole appare quella della sospensione senza retribuzione, atteso che l’impossibilità della prestazione discende da un rifiuto ingiustificato del lavoratore stesso.